I grandi filosofi della storia concordano su dove trovare la felicità: «È impossibile trovarla altrove»

Quando si studia filosofia, ci si imbatte in una curiosa rivelazione. In luoghi diversi del mondo, quasi contemporaneamente, persone molto diverse tra loro giungevano a conclusioni simili sulla felicità. Anche la saggezza orientale e la filosofia occidentale, che accademicamente si è cercato tanto di separare, trovano punti in comune.

La Felicità secondo i Maestri: Un Viaggio al Centro di Sé

Lo scopriamo, ad esempio, studiando Buddha e Aristotele. O Confucio ed Epitteto. Separati da secoli e chilometri, senza un accesso a Internet che li collegasse, le loro idee finiscono per intrecciarsi nella storia.

Quando ciò accade, è facile giungere alla conclusione che nei loro insegnamenti si nasconde qualcosa di speciale. Sono lezioni trasversali, che sopravvivono al tempo e allo spazio e che si rivelano a coloro che hanno il coraggio di riflettere, di accettare la verità e di guardare il mondo senza raccontarsi bugie. Sono queste certezze, queste lezioni ancestrali, che in questo presente così incerto possono guidarci verso la felicità.

Una di queste grandi lezioni, con cui iniziamo questo viaggio e che abbraccia tutti gli insegnamenti che possiamo trarre da tanti altri filosofi, ci è stata lasciata da Schopenhauer. Il filosofo del pessimismo ci ha detto: “È difficile trovare la felicità dentro di sé, ma è impossibile trovarla altrove”. Così, questo viaggio attraverso la filosofia è, in una certa misura, un viaggio verso il centro di sé stessi.

Riflettere sulla felicità, sulla sua origine, forma e definizione è stato compito della filosofia sin dall’inizio dei tempi. Già Confucio, nel VI secolo a.C., ci ha lasciato alcuni proverbi e frasi che anticipano ciò che altri hanno confermato nel tempo. La felicità non è un’emozione temporanea, non è come la gioia, fugace e intensa. È qualcosa di più profondo, qualcosa di imperituro che si insedia in chi impara a cercarla nei luoghi giusti. Il risultato di un atteggiamento corretto di fronte alle circostanze.

Infatti, se la felicità deve essere imperitura, non può mai dipendere da ciò che rimane al di fuori del nostro controllo. La felicità, quindi, ci appartiene e dipende dal nostro atteggiamento nei confronti della vita.

“Solo chi sa essere felice con tutto può essere sempre felice”, scrisse il pensatore cinese. Con questa semplicità mise sul tavolo uno dei dibattiti eterni dell’umanità, che senza dubbio ha finito per confermarsi nel presente.

Se Confucio ci avvertiva che la felicità è riservata esclusivamente a chi sa essere felice con tutto, Epitteto, nato quasi 500 anni dopo, diede una nuova svolta all’idea. “Non pretendere che le cose accadano come vuoi tu, desidera che accadano come accadono e sarai felice”, disse il filosofo latino.

La chiave non è quindi accontentarsi di ciò che accade, ma amare il destino. “Amor fati”, questa era una delle grandi lezioni degli stoici.

Questi pensatori ci avvertivano che, in realtà, non conosciamo il futuro. Non possiamo sapere se ciò che oggi ci sembra tragico, domani finirà per diventare motivo di gioia. E in ogni caso, anche nelle circostanze più complesse, possiamo sempre contare sul nostro atteggiamento per andare avanti. Possiamo trasformare le avversità in lezioni, uscendone così rafforzati.

La lezione di Epitteto per trovare la felicità è quindi quella di imparare ad amare il destino. Accettarlo, qualunque cosa accada, credendo fermamente che fosse la cosa migliore che potesse accadere.

Per poter applicare l’insegnamento di Epitteto dobbiamo sconfiggere uno dei grandi nemici della felicità, secondo tutti i grandi pensatori della storia: il desiderio. I nostri desideri ci allontanano da quell’atteggiamento stoico che accetta senza riserve le circostanze e che ci raccomandavano i due pensatori citati.

Questo cambiamento è introdotto, ad esempio, da Jean-Paul Sartre, filosofo esistenzialista, in alcuni dei suoi studi. “La felicità non è fare ciò che si vuole, ma volere ciò che si fa”, afferma il pensatore.

Il suo messaggio era potente. Siamo schiavi delle nostre ferite e dei nostri desideri, finché non siamo consapevoli che essi guidano le nostre azioni. Questa presa di coscienza, il riconoscere che la nostra volontà può essere soggetta alla nostra emotività, ci permette di liberarci. E il modo per farlo è comprendere che tutto ciò che fai e credi di detestare è in realtà una libera scelta.

La Felicità nel Presente: Dal Desiderio alla Contemplazione

Quindi, andare al lavoro può essere qualcosa che non ti va di fare, qualcosa che non obbedisce al tuo desiderio. Ma sei consapevole dei benefici che tale azione ti porta a lungo termine, e in questo modo sottometti il desiderio e diventi libero. Puoi smettere di dire “devo andare a lavorare” e puoi iniziare a dire “voglio andare a lavorare”. Perché comprendi che la tua volontà è superiore al desiderio e sai di essere responsabile della tua felicità.

Per quanto riguarda la teoria, i filosofi occidentali sono grandi maestri. Per quanto riguarda la pratica, niente è meglio del buddismo per imparare a connettersi. Tutto ciò che ci presentano i pensatori precedenti ci porta a un punto comune, che comincia a delinearsi come quello spazio immaginario in cui si nasconde la felicità: il presente.

“Il momento presente è pieno di gioia e felicità, ma non lo vedi perché non sei attento”, scrive il maestro buddista Thich Nhat Hanh a questo proposito. Accettare il presente, amare il destino, trarre valore dalle nostre azioni… Tutto questo ci porta direttamente a una potente verità: la felicità si trova sempre nel presente.

È la meditazione, la pratica contemplativa, che ci permette di connetterci con il presente in tutta la sua estensione. E così scopriremo che la felicità sta nel piacere di condividere e sperimentare, mettendoci tutti e cinque i sensi.

Di questa pratica contemplativa ci parla anche Byung-Chul Han, che possiamo già considerare uno dei grandi filosofi della storia. Nella sua Vita contemplativa, il pensatore attacca un’altra grande filosofa del passato, Hannah Arendt. “La felicità non ha a che fare con una vita attiva, come diceva Hannah Arendt, ha a che fare con una vita contemplativa”, afferma il sudcoreano.

La vita contemplativa è per Byung-Chul Han una forma di rivoluzione silenziosa nel presente. In un mondo sovrasaturato di azione, informazioni ed esigenze, per sfuggire al desiderio e alla cultura del “posso farlo”, che ci rende schiavi della produttività, il pensatore ci propone di tornare alla contemplazione.

La contemplazione è quel tempo libero da esigenze, quello spazio in cui i minuti scorrono senza che nulla li occupi. E potrebbe essere il vero segreto per connettersi con il presente, per avere il tempo di prendere coscienza delle nostre azioni, per amare il destino e, naturalmente, per collocarci in quello spazio di totale accettazione in cui Confucio affermava che possiamo essere felici per sempre.

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